Appena laureata in Lettere e Filosofia, mia madre si è trasferita da Urbino ad un paesino a pochi chilometri da Mestre e Venezia, lì dove il passaggio dal nobile "cosa ti vol" al più prosaico "cosa vutto" segna un confine ben preciso. Le avevano assegnato una cattedra di italiano in una scuola media.
Nei miei ricordi, a Maerne tutti parlavano in dialetto e i miei genitori (nel frattempo anche mio padre ci aveva raggiunti, come insegnante nella stessa scuola) erano "quelli che parlano italiano". Io ero convinto che anche a scuola si facesse lezione in dialetto, così come in dialetto facessero i temi ed i compiti i bambini. Col tempo, ho realizzato che non poteva essere così, considerato che mia madre era lì proprio ad insegnare italiano!
In ogni caso, nonostante gli anni di studio di italiano e filosofia, anche mia madre portava inconsapevole con sé un retaggio urbinate. Il primo giorno in cui gli alunni hanno cominciato a fare confusione, lei, con piglio autorevole, ha esclamato: "ragazzi, fate basta!" A quel punto sulla classe è caduto lo sconcerto: alcuni tacevano interdetti, qualcuno rideva, uno addirittura piangeva. E si capisce il perché, l'espressione "fai basta" è un paradosso che contiene in sé il suo contrario: l'imperativo "fai" esorta all'avvio di una azione, "basta" al porvi fine. Il tutto nello stesso momento. Probabilmente, Bertrand Russell ne sarebbe stato contento, quale scuola introduce gli alunni ai paradossi sin dalla tenera età?
Comunque, capito l'inghippo, per la volta successiva mia madre si era preparata e, al primo accenno di confusione da parte degli alunni il suo "ragazzi, fate silenzio!" ha funzionato perfettamente.
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