Ero in libreria, l'altro giorno - anzi, era sera - e mi è capitato fra le mani "Le mosche del capitale" di Paolo Volponi. E' stata una di quelle folgorazioni che capita, ogni tanto, quando inciampi in qualcosa e, guarda caso, era proprio quello che avresti voluto trovare in quel momento.
Io Volponi non l'avevo mai letto, perchè da piccolo ero scemo. Ma forse è meglio così, perchè forse a quell'età non l'avrei apprezzato. E' che Volponi, come me, è di Urbino. E così da piccolo mi capitava di passare in piazza ("in piazza" a Urbino è una specifica e ben definita piazza: Piazza della Repubblica) e sentir dire "ah, è appena passato Volponi...", e io pensavo che fosse uno un po' così, famoso a Urbino o giù di lì. E anche quando è diventato senatore mi dicevo che tanto qualcuno doveva pur diventare senatore, a Urbino. Tutte le città hanno un senatore, no?
Comunque, Paolo Volponi, oltre ad essere stato uno dei più grandi scrittori italiani del '900, è stato dirigente nella ditta che ha rappresentato una delle esperienze industriali più illuminate e esaltanti d'Italia, e forse del mondo: la Olivetti di Adriano Olivetti. "Le mosche del capitale" è un romanzo sul mondo dell'industria italiana, della finanza e del potere, ricavato dalle sue dirette esperienze in Olivetti e in Fiat. Ma è un romanzo, non un saggio o un resoconto. Un romanzo in cui Volponi fa parlare, oltre ai protagonisti, tutti gli oggetti che li circondano: le calcolatrici, le potrone, i ficus, i pappagalli... Ed è bellissimo. Dal meraviglioso incipit, in cui descrive una città in cui "dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi... e mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all'aperto o dentro gli edifici", al discorso in cui si arriva al titolo del libro:
Un giorno dirò tutto, scriverò un memoriale, un libro bianco sui grandi dirigenti, sulle grandi politiche aziendali, la verità sulla ricerca e sullo sviluppo, sulle qualità produttive, sugli investimenti, sulle grandi novità tecnologiche, sui grandi, questi sì, altro che grandi, prelievi personali e soprusi, sulle mosche, sì, le mosche del capitale.
Si fermò su questa immagine, che gli pareva cogliesse esattamente la banda dei suoi nemici, tutti gli amministratori e i manager industriali di successo, fatti di voli e voletti, di ali e alette… azzurre come cravatte… tutti a modo, con gesti e accenti, aggiornamenti e riverenze, relazioni e riferimenti, le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì, le mosche… per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e a sporcare.
Gli alberi sparirono nell’ombra e il canarino, sempre muto, rapidissimamente guardava in giro, come impressionato dalle mosche, come se ne temesse l’avvento.
Se non è bello questo, non saprei cos'altro.